martedì 8 ottobre 2013

Ilaria Izzo - Dieci racconti di Dino Buzzati

Introduzione

Certamente Dino Buzzati può annoverarsi tra i più grandi autori italiani del Novecento.
Artista eclettico, oltre che giornalista e scrittore era anche pittore, appassionato della montagna, è noto al gran pubblico soprattutto con il suo “Deserto dei tartari”.

Tuttavia, la forma che meglio corrisponde al suo talento narrativo è il racconto, e proprio con la fortunata raccolta “Sessanta racconti” vincerà il premio Strega.
I racconti di Buzzati sono magistrali nella forma e nel contenuto, ma anche particolari e di difficile catalogazione. Sono racconti surreali, talvolta fantastici se non fantascientifici, allegorici, e talora anche macabri o misteriosi.
Infatti per Buzzati, accanto a tutto ciò che i nostri sensi sperimentano e utilizzano per costituire la realtà, esiste una dimensione misteriosa e potente che ci sfugge.
Il sapore triste, disperato ed a volte vagamente macabro delle sue opere, è forte in qualsiasi luogo esso le ambienti, e ci invita a guardare ciò che ci circonda, con occhi più rispettosi e consapevoli del mistero della vita. Con un senso di attesa di  qualcosa, che non arriverà mai.
Buzzati scrive bene, con grande limpidezza espressiva e linguistica contrapposta al mondo allegorico, surreale spesso rappresentato; in lui domina sovente un senso del fantastico, nei libri di Buzzati c' è il mistero e la magia che ritrovi nei silenzi dentro i boschi di montagna da lui amatissimi. Ha un suo particolare stile, asciutto e incantatore. In un certo senso, Buzzati trasfigura la realtà per farla vedere meglio, per far scoprire a tutti che sotto sotto c'è una bellezza pura e incontaminata. E i racconti terminano come fossero incompiuti, lasciando il lettore aperto ad altri significati che può attribuire al testo appena letto.


Sette piani


“Sette piani” è uno dei racconti più conosciuti ed anche più emblematici di Buzzati.
Esso, in un certo senso, è una metafora della vita, descrive in maniera indiretta come l’uomo in effetti si trova in balia dell’esistenza, nulla può contro gli eventi che si susseguono nel tempo, è impotente, non è mai padrone del suo destino che dipende da altri ed altro da lui non controllabile, per quanti sforzi faccia, e questo gli crea ansia, angoscia, mal di vivere.
Un giorno Giuseppe Corte si fa ricoverare in un moderno sanatorio, il migliore del suo genere, specializzato esclusivamente nella cura di quell’unica malattia da cui è affetto, per cui medici e sanitari sono assolutamente i migliori a disposizione. La casa di cura è strutturata in sette piani: i pazienti meno gravi vengono ricoverati in quello più alto, mentre ai piani più bassi si trovano, in forma crescente da piano a piano, i casi più gravi. Corte viene accolto subito al settimo piano, in attesa che i medici riescano a debellare la lieve forma che lo affligge e lo rispediscano a casa al più presto, come egli spera. Ma dopo poco che soggiorna al settimo piano, pieno di buonumore e voglia di guarire, commiserando gli inquilini dei piani sottostanti il suo, una serie di sfortunati e sconcertanti eventi, indipendenti dalla sua volontà, fa sì che venga gradualmente trasferito nei piani inferiori, sempre con motivi pretestuosi, e quindi senza che ve ne sia la reale necessità medica.
Prima il ricovero di una donna che vorrebbe, al settimo piano, occupare più camere (per lei e i  figli), e quindi la necessità di posti letto supplementari che gli vengono richiesti appellandosi alla sua cortesia, poi gli scrupoli di un medico allarmista, successivamente un semplice sfogo che gli appare su una gamba e lo fa scendere addirittura di due piani, poi un errore amministrativo, infine le ferie dei dipendenti: Giuseppe Corte discende così uno dopo l'altro i vari piani della clinica, nonostante le continue proteste nei confronti del personale dell'ospedale e nonostante i medici continuino a ripetergli che non ha nulla di grave. Con una graduale escalation di angoscia e depressione, Giuseppe Corte scende simbolicamente i vari gradini della degradazione umana, diviene una marionetta, un povero malato privo di forza, in balia del volere altrui a cui non sa o non è capace di opporsi, e giunge al temutissimo piano terra, il regno assoluto della desolazione e della tristezza. Corte, impotente nei confronti delle decisioni prese all'interno dell'ospedale, in un ultimo anelito, tenta ancora di persuadere se stesso e i sanitari circa la sua sanità.
Ma inesorabilmente cade in balia del buio della depressione, che non permette risalite di sorta.


Eppure battono alla porta


Un racconto surreale, melodrammatico, che ricorda molto da vicino le atmosfere di attesa inquietanti alla Edgar Allan Poe,  come nella “La maschera della morte rossa” o “Il crollo della casa degli Usher”, e che riporta il drammatico contrasto tra la boria, l’arroganza e la superbia delle classi nobili, le cosiddette persone per bene, e la potenza della natura.
In un palazzo aristocratico una nobile famiglia si ritrova insieme ad alcuni invitati, mentre all’esterno imperversa un tremendo temporale. Nessuno, tranne pochi dei presenti, si accorge o sembra curarsi del fatto, dell’imminente, disastrosa alluvione alle porte.
In una notte di pioggia, Maria Gron è nella sua casa, insieme alla sua famiglia e al dottor Martora, medico e vecchio amico di famiglia.
La figlia Giorgina le racconta di aver visto due contadini portar via due cani di pietra che erano sempre stati nel parco della famiglia. Mentre i presenti discutono di ciò, arriva il giovane Massigher, che la signora Gron non ha in simpatia, il quale cerca di avvisare la famiglia di un pericolo legato all’ingrossamento del fiume, dovuto alla pioggia torrenziale, ma la signora Gron non vuol sentir parlare del fiume e continua a cambiar discorso.
Mentre la famiglia e gli ospiti giocano a carte, si sentono dei rumori che sembrano provenire dalle fondamenta della casa, ma Maria Gron li attribuisce al temporale. I contadini vengono trafelati ad avvisare della violenza inaudita della natura. Il fattore Antonio si presenta alla porta, preoccupato dall’avvicinarsi dell’acqua, ma la famiglia ignora il suo avvertimento.
Infine l’acqua giunge fino alla casa ed entra da una finestra aperta, ma Maria rifiuta di lasciare la casa con tutti i suoi averi e tutti restano in attesa di quello che accadrà molto ansiosi. All’improvviso qualcuno bussa alla porta…
L’ottusità di chi non concepisce, come la signora Goru, che possa accadere qualcosa contro la sua volontà, fa sì che la casa sia inghiottita dal fiume, insieme con tutti gli occupanti, senza che nessuno muova un dito.
L’ ottusità dell’uomo, la sua tracotanza, il senso di onnipotenza, sono tutti orpelli inutili dinanzi alla semplice, disarmante azione delle acque, che svolge quasi un ruolo di necessaria, profonda, radicale pulizia.



Il mantello


“Il mantello” è una breve, ma ferma, insolita, determinata e commovente denuncia della guerra, dei lutti e degli orrori di tutti gli eventi bellici.
Dopo tanto tempo il soldato Giovanni torna a casa, di rientro dalla guerra. Egli è accolto con gioia immensa dalla propria madre. Tuttavia la donna si accorge che il figlio non è più il ragazzo pieno di forza e di vita, come lo ricordava, allegro e gioioso com’era quando è partito. Naturalmente in cuor suo la donna lo giustifica, crede che sia una conseguenza della triste esperienza che ha dovuto affrontare, che lo ha trasformato di colpo da ragazzo ad uomo. Tuttavia ben presto si accorge che c’è altro, che c’è di più: Giovanni è strano, pallido, frettoloso, nervoso, passa da un ambiente all’altro quasi con furia, quasi volesse permearsi dell’aria di casa, delle immagini familiari, assorbire suoni, odori, immagini delle sue cose familiari, dal suo letto agli oggetti della sua infanzia.
E inizia a salutare la mamma, ad accomiatarsi da tutti, mostrando una gran fretta di ripartire immediatamente. Soprattutto Giovanni appare assai turbato, quasi assillato, ossessionato dalla presenza di un “amico” che lo ha accompagnato fino alla casa natia, ma che malgrado le insistenze della madre, non fa accomodare in casa, l’amico di Giovanni lo aspetta fuori dal cancello, lo aspetta a breve, lo aspetta con impazienza. La madre non capisce perché deve ripartire immediatamente, chiede inutilmente spiegazioni, crede che il figliolo desidera scappare a rivedere quanto prima la sua fidanzata, ma ben presto capisce che lei stessa si sta illudendo. Il suo cuore di madre capisce, va oltre l’umana sapienza e gradualmente, ma inesorabilmente comprende chi è il misterioso amico da cui Giovanni deve assolutamente ritornare al più presto, comprende perché il suo bel figliolo ha un’ aria diversa, dismessa,  eterea come un fantasma…ma proprio perché madre si rifiuta di credervi. La scuote, riportandola alla cruda realtà dell’esistenza l’azione di un innocente, il piccolo fratellino Pietro, che scosta il lembo del mantello che Giovanni non si era mai tolto durante l’ultimo commiato, rivelando un’atroce, mortale ferita. E fuori lo aspetta inesorabilmente l’amico, l’amico che con pazienza, tenacia e misericordia, ha permesso a Giovanni di essere rivisto l’ultima volta dai suoi cari, anche se colpito mortalmente durante la guerra, un amico descritto nelle ultime righe: “signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato”.


Una cosa che comincia per elle


Uno delle più grandi paure dell’uomo degli ultimi anni è stata l’AIDS; oggi è sempre una grave patologia, ma grazie ai progressi della scienza e della medicina, comincia a far meno paura, certamente provoca molto meno panico rispetto a quanto esordì sulla scena mondiale, e non si comprendeva bene la causa, i meccanismi di insorgenza e diffusione e soprattutto come affrontarla farmacologicamente. Diciamo che l’AIDS, così come il cancro, rappresenta la paura con la maiuscola che in passato era deputato ad altre infezioni oggi fortunatamente quasi debellate del tutto come la peste o il vaiolo.
Ebbene, in questo racconto, rendendo mirabilmente lo stato d’animo  gradualmente ingravescente di mistero, sorpresa, ansia ed angoscia che avviluppano il protagonista come i tentacoli di una piovra, Buzzati ci parla proprio di questa paura, la paura delle malattie, una paura tanto grande e tanto temuta, insita ed ancestrale nell’uomo, una paura che rende i suoi simili disumani nei confronti del povero, sfortunato reietto colpito dalla patologia.
Cristoforo Schroeder, un mercante di legnami, contrae la lebbra a sua insaputa, mentre un lebbroso lo aiuta a spingere una carrozza, rimasta impantanata in una notte temporalesca.
Ai primi sintomi, credendo sia un banale malessere, egli avvisa il medico, sperando di trovare un aiuto, ma quest'ultimo a sua volta avverte invece le autorità, nella fattispecie il sindaco.
Medico e sindaco la mattina seguente si recano nella locanda dove Schroeder soggiorna ed il sindaco, mostrando una cattiveria assurda ed una fredda insensibilità, comunica all'ignaro Schroeder di aver contratto la malattia, che il suo cavallo e la sua carrozza sono stati bruciati ed inoltre gli ordina, sotto la minaccia di una pistola, che deve lasciare immediatamente la città ("Fuori! fuori di qua! Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane! "), portando al collo una campanella che segnali alle altre persone il suo arrivo, senza neanche poter indossare i suoi vestiti, in quanto verranno anch'essi bruciati.
Un racconto breve e drammatico, dove la crudeltà della patologia, la temutissima lebbra, per secoli un autentico spauracchio, eguaglia la crudeltà dell’uomo; la misericordia, l’umanità, lo spirito di solidarietà sembrano dimorare solo nel cuore del povero lebbroso che si prodiga a tirare fuori la ruota di una carrozza dal fango.


La fine del mondo


E se un bel giorno un preciso segnale fa capire che Dio ne ha abbastanza di noi, e con un semplice pugno intende dar luogo a breve alla fine del mondo?
Come reagirebbe l’umanità? E chi si salverebbe? E finalmente, gli uomini darebbero prova di sé, offrirebbero il meglio di sé, se non altro per salvarsi l’anima? O la cattiveria, la crudeltà, l’egoismo dell’uomo trionferebbero anche stavolta, come al solito?
Anche questo racconto rispecchia il mondo di Buzzati, un mondo magico, misterioso, stupendo come una maestosa montagna, ma che spesso la presenza dell’uomo in qualche modo deprezza.
E’ sempre l’individualità ad emergere anche quando è la fine di tutto, quando Dio, rappresentato dallo scrittore come un enorme pugno che si scaglia sul mondo, piomba sulla Terra per giudicare gli uomini. In “La fine del mondo”, di fronte alla catastrofe imminente, gli uomini cercano la salvezza: c’è chi prega, chi piange, chi fa l’amore, e chi disperatamente si lancia alla ricerca di un prete per confessarsi e salvarsi l’anima. Preti e membri del clero sembrano essersi volatilizzati; ma infine una gran folla che corre disperata per la città scova e trattiene un giovane sacerdote, pretendendo da lui confessione, comunione, conforto ma più di tutto assoluzione completa, salvezza assoluta e garantita.
Il prete in quest’occasione dimostra tutta la sua umanità, nel senso che si dimostra per quello che davvero è: senza esitare, tradisce se stesso e le proprie scelte di vita. Dimentica il dettato evangelico, pensa soltanto a se stesso. Trema pensando alla propria fine e non più a quella folla che egli, in forza della propria missione, dovrebbe sostenere negli ultimi istanti di vita del mondo. Anche lui come gli altri cerca la salvezza nella confessione dei propri peccati.
L’uomo chiede «E io? E io?». Tutti quei «maledetti» che gli rubano la possibilità di isolarsi, di pregare, di confessarsi e di autoassolversi, in definitiva gli impediscono di salvarsi.
Essi non sono più le pecorelle del suo gregge, non rappresentano più niente per lui; egli non ama più l’umanità e l’umanità non lo ama semmai se ne serve.
«Nessuno … gli badava»..., scrive Buzzati, a nessuno interessa niente dell’altro.
E non capiscono che è proprio questo egoismo, questa grettezza, questa meschinità, questo modo di essere è quello che Dio misericordioso non perdonerà mai.



Qualcosa era successo


Il racconto è essenzialmente la storia, assai insolita, di un viaggio, un lungo viaggio in treno, senza soste e senza interruzioni,  dal profondo Sud fino a Milano; fin qui nulla di particolare, il paesaggio scorre pigramente dal finestrino davanti agli occhi del protagonista narratore.
Ad un passaggio al livello, la vista di due persone in allarmata discussione, innesca la paranoia del protagonista e da lui agli altri passeggeri il passo è breve, quasi come un’infezione virale, per cui in un crescendo di tensione e di nevrastenia, il viaggio tranquillo e soporifero diventa un angosciante viaggio verso l’ignoto, verso una probabile catastrofe accaduta proprio nei luoghi dove il treno si sta dirigendo. L’episodio avvenuto al passaggio a livello, semplicemente una donna, che aspetta il passaggio del convoglio per attraversare, in discussione con un uomo che, a giudizio del protagonista, è allarmato e spaurito, è un episodio reale; ma l’interpretazione che ne viene data è filtrata dalle paure, dalle nevrosi di uno che facilmente si impossessa degli altri.
La stupidità umana non ha limiti ed è facilmente contagiosa, questo pare essere il significato del testo. Infatti, da quel momento, ogni persona che si vede dal finestrino, in qualsiasi zona si trovi il treno, dà a tutti l'impressione di essere in preda al panico per un ignoto motivo; addirittura i treni che da nord vanno a sud appaiono stracolmi di profughi. Si vede ciò che si vuole vedere e che dà corpo e conferma alle proprie paure. Il terrore di non sapere cosa aspetta all'arrivo assale l’animo del protagonista dilaniandolo, ed egli trasmette la sua angoscia irreale agli altri occupanti del vagone, evidentemente tutti recettivi a tale ansia.
Un pezzo di giornale strappato ad uno strillone amplifica le sue e loro paure: c'è scritto IONE, che lui interpreta come rivoluzione, inondazione, esplosione... ma potrebbe anche essere premiazione, esposizione, celebrazione. In realtà, egli non è una persona equilibrata, proprio perché non è immune da pecche, vede ed immagina sempre il peggio, possiamo dire che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto; per cui infine all'arrivo nella Stazione Centrale di Milano il protagonista scende dal treno terrorizzato e si inquieta nel trovare la stazione deserta (è notte fonda) e il fischio di un treno viene interpretato come un grido che squarcia la notte.
La storia è descritta dal punto di vista del protagonista: ansia e insicurezza portano lo stesso protagonista ad un crescendo di paure infondate. Proprio perché è il protagonista a descrivere soggettivamente gli eventi, le sue paure potrebbero inizialmente apparire come fondate agli occhi del lettore. Questo tipo di narrazione, con il viaggio nella mente di un personaggio ansioso e suggestionabile, è un tema ricorrente nelle storie di Buzzati.



Appuntamento con Einstein


Buzzati dimostra apertamente  in vari suoi scritti la sua avversione per la guerra e simili, egli considera la guerra e le attività collaterali come le fabbriche di armi come un vero e proprio abominio morale dell’uomo. E naturalmente l’orrore più grande verso cui scaglia il suo sdegno è la bomba atomica.
In questo racconto intitolato appunto “Appuntamento con Einstein”, Buzzati immagina che il celebre scienziato, dopo lunghi studi ed intense lunghe riflessioni, riesce a concepire con chiarezza il suo famoso principio della relatività, elucubrando non solo le sue implicazioni sullo spazio e sul tempo, ma già intuendo gli usi possibili ottenibili dando luogo all’immensa liberazione di energia scindendo la materia.
Un giorno, uno strano personaggio si avvicina ad Einstein: egli è l'Angelo della Morte, e senza mezzi termini gli preannuncia che è giunta la sua ultima ora.
Lo scienziato all'inizio è incredulo, ma poi, convinto dagli straordinari poteri dell'interlocutore, chiede una proroga, perché intende completare la formulazione della sua teoria, prima di lasciare la vita.
Il demone gli concede così ancora un mese di tempo e poi, scaduto il tempo concordato, un'altra dilazione di quattro settimane.
Alla fine, trascorso quest'ultimo lasso di tempo, Einstein, presentatosi all'appuntamento, dopo che ha terminato i suoi studi sulla relatività, è rimandato indietro. Egli è stato bellamente preso in giro, ingannato. Infatti l'Angelo della Morte, non è mai stato interessato alla vita dello studioso, ma lo ha incalzato affinché Einstein portasse a compimento con rapidità le sue ricerche di fisica, utili  per scopi belligeranti, e quindi responsabili dei lutti, dei dolori, degli orrori…tutte belle cose di cui si nutre il Male, l'Inferno, che sta dietro all’Angelo della Morte inviatogli per ingannarlo.


All’idrogeno


Sulla falsariga di “Appuntamento con Einstein” anche questa racconto ha sullo sfondo, come vero protagonista, la bomba atomica. Con tutto quanto esso sottendente: strumento di morte creato dall’uomo, certamente, ma anche come simbolo della stupidità e della grettezza umana.
Il menefreghismo, l’egoismo, l’aridità d’animo, il desiderio di trovare una soluzione che escluda sé stessi da ogni coinvolgimento è al centro del racconto “All’idrogeno” nel quale lo spaccato di umanità  preso in considerazione da Buzzati è un condominio. Ciascuno dei condomini, campioni dell’umanità, bada esclusivamente al proprio orticello, cerca in qualunque modo di non affrontare questioni che turbino il proprio quieto vivere.
All’inizio di questo racconto il protagonista riceve una telefonata nel cuore della notte e egli, improvvisamente, si rende conto, così come gli altri residenti del palazzo dove abita, che qualcosa di insolito sta per accadere. Infatti l’orrore, l’oggetto perturbante del perbenismo ipocrita dei benpensanti fa il suo ingresso nel condominio sottoforma di una bomba all’idrogeno che viene portata nell’atrio del palazzo.
Gli inquilini del palazzo escono dalle loro case e sono terrorizzati e si agitano perché tra miliardi
d’individui nel mondo quella sera la bomba atomica è stata portata a casa loro, provare a chiedere
di che cosa si tratti è quasi un affronto e tutti parlano sussurrando.
“Gli abitanti del palazzo sembrano impazziti, tormentati oltre misura dall’idea che loro avevano
altri piani, che la bomba li travolgerà e loro non potranno fare ciò che avevano programmato; sono
stizziti al pensiero che la bomba sia toccata proprio al loro condominio e non ad altri” così magistralmente li descrive Buzzati
La scena, però, viene improvvisamente rasserenata da una notizia, tra i condomini si diffonde la
voce che la bomba pare indirizzata a uno solo degli abitanti del condominio, proprio il protagonista diretto del racconto. Tutti sono improvvisamente travolti da una selvaggia felicità e sembrano non rendersi conto che nel caso in cui la bomba dovesse esplodere comunque la cosa li coinvolgerebbe.
Il destinatario del pacco infernale si ritrae verso l’uscio della sua porta e torna a chiudersi nel suo
appartamento, ciò che lo aveva accomunato agli altri condomini, improvvisamente diventa un suo
problema personale. Lo sgomento che aveva sconvolto tutti ritorna ad essere il problema esclusivo di uno solo e perciò di nessun interesse per gli altri,  gli altri possono ritornare a vivere tranquilli, perché, almeno per quella sera, il mondo intero può anche esplodere, non è una cosa che li riguarda.


Non aspettavano altro


Nei suoi racconti Buzzati si sofferma spesso a sottolineare la grettezza, l’orizzonte limitato degli esseri umani, la loro meschinità. E naturalmente, non può non esaminare una delle rappresentazioni più drammatiche dell’aridità umana, la violenza. La violenza gratuita, pretestuosa, selvaggia è la vera protagonista di questo racconto.
A causa di un imprevisto, Anna e Antonio cercano un posto per la notte nel piccolo paese lì vicino. Gli abitanti sembrano guardare con sospetto la coppia che non riesce a trovare disponibilità negli alberghi del paese. La stanchezza inizia a farsi sentire e i due si avviano verso l’albergo diurno dove almeno rinfrescarsi un poco. Trovano però code interminabili di gente e anche quando arriva il loro turno, scoppia un diverbio tra Anna e un’altra donna.
Dopo ripetuti tentativi da parte di Antonio di recuperare la situazione i due devono abbandonare l’idea di poter usare quei bagni e scorgono in una piazzetta poco distante una fontana piena di bambini e donne e uomini tutto intorno.
Anna non resiste più ed entra nella fontana per rinfrescarsi ma un mormorio inizia a sollevarsi dalla folla tutt’intorno affinchè torni indietro, perchè quella fontana è riservata ai bambini.
La situazione degenera nel giro di breve tempo e niente può ormai trattenere quella gente dal buttare fuori “quel carico di cattiveria” covato a lungo in fondo ai loro animi.
Anna viene presa e picchiata e anche Antonio ha la peggio.
Sembra che tutti siano impazziti e non esista alcuna forma di pietà, comprensione o di semplice raziocinio. La gente grida incespicando nelle parole, ora diverse da prima, incomprensibili, gutturali, selvagge, con un suono rozzo e informe. L’isteria collettiva si è scatenata, in un delirio sfrenato e pazzesco Anna che tenta la fuga viene inseguita e lasciata cadere nella gabbia del castello. Anche Antonio giunto in soccorso di Anna viene scaraventato nella gabbia e la caduta gli sarà fatale. La folla ormai sazia inizia ad allontanarsi mentre Anna sente il richiamo di un grillo e tende la sua piccola mano tremante ed è come se il grillo con il suo suono si facesse portavoce del suo grido di aiuto. La natura ha pietà della follia dell’uomo.



Il disco si posò


Buzzati ha trattato spesso il tema della religione nei suoi libri; e spesso, pur non travalicando mai i limiti, senza mai mostrarsi irriverente o irrispettoso, egli utilizza la religione come un mezzo per sottolineare la pochezza dell’uomo.
Questo racconto ha qualcosa di fantascientifico, si parla di marziani e di dischi volanti.
Ma e solo apparenza; infatti, ne “Il disco si posò”,  la religione viene sviscerata nelle componenti più ambigue.
Un disco volante atterra sul tetto della canonica, e dopo l’iniziale sconcerto per lo strano aspetto degli alieni e l’istintiva diffidenza per il “diverso”, si instaura un dialogo  e si  interroga il sacerdote del luogo, sugli usi e costumi degli abitanti del pianeta Terra, e soprattutto sul significato di quella strana “antenna”, la croce, che gli alieni hanno individuato un po’ dappertutto, ma senza comprenderne il significato, malgrado la loro scienza.
Il parroco allora con ispirazione e susseguo, quasi volesse evangelizzare quegli astronauti da un’altra galassia,  spiega loro il significato della croce, di come Dio creatore onnipotente di tutto è sceso dal cielo per salvare gli uomini, che alla fine…lo hanno ucciso.
I marziani ascoltano attentamente ed in silenzio, per poi andarsene via per sempre visibilmente delusi, senza sprecare commenti su creature che si comportano in un modo così assurdo, arrivando ad uccidere il loro creatore. Non riportano quindi una buona opinione sulla razza umana.







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