domenica 20 ottobre 2013

Jessica Fiore - Il maestro Copernicano e il maestro Angelico

Piero: un bambino di 10 anni frequentante la scuola elementare pubblica del Sig. Copernicano.
Antonio: compagno di classe di Piero.
Copernicano: fondatore della scuola pubblica Copernicana, maestro di Piero.
Angelico: maestro di italiano di Piero.

Giovedì 6 aprile.
Copernicano: oggi tratteremo l'argomento dell'Impero romano e le sue varie guerre. Spero per tutti quanti voi che abbiate studiato gli argomenti spiegati durante la lezione di ieri.
(In coro): Si, signor maestro.
Copernicano: perfetto, allora interroghiamo!
(sfoglia sull'elenco del registro mentre nella classe gli alunni iniziano a parlare)
Copernicano (con tono arrabbiato): cos'è questa confusione! Non vi hanno insegnato l'educazione? Piero, vieni alla lavagna visto che ti piace tanto parlare!
Piero: sì, signor maestro.
Copernicano: bene, ragazzino, di cosa abbiamo parlato ieri?
Piero: dell'impero romano, signor maestro.
Copernicano: e cosa abbiamo detto?
(Piero non risponde)
Copernicano: bene bene, non lo sai, vedo.
Piero: no, signor maestro.
(Piero posiziona le mani stese davanti a sé, attendendo le 50 frustate dal maestro. Copernico prende dalla sua cartella una piccola bacchetta di legno e, con aria seria, si alza dalla sedia avvicinandosi al ragazzo.)
Copernicano: ripeti ad ogni frustata “io sono un asino”.
(Copernicano inizia a bacchettare le mani di Piero mentre quest'ultimo, ad ogni colpo, ripete la frase detta dal maestro.)
Piero: io sono un asino, io sono un asino, io sono un asino..
(Dopo 50 colpi, Copernicano si risiede mentre il bambino, con le lacrime agli occhi, ritorna al suo posto silenzioso)
Copernicano: che vi serva da lezione. La mia scuola è fatta di sapienti, non di asini come Piero.
(Inizia a spiegare)

Venerdì 7 aprile.
Angelico: buongiorno ragazzi, oggi inizieremo a esercitarci sull'analisi grammaticale. Avete studiato tutti i verbi assegnati ieri?
(in coro): sì, signor maestro!
Angelico: Perfetto! Vi detto due frasi e voi me le analizzate.
“La mamma gioca e carte”, “il lupo mangiò la pecora”.
(I bambini scrivono e, intanto, svolgono il compito a loro assegnato)
(Dopo 5 minuti)
Angelico: sono passati 5 minuti, penso che siate riusciti a finire. Piero, dimmi come hai analizzato le frasi.
Piero: signor maestro “La” è un articolo determinativo, “mamma” è un nome comune, “gioca” è..
Angelico: cos'è “gioca”?
Piero: signor maestro, non lo so.
(intanto Antonio inizia a fare la linguaccia al maestro, cercando così di evitare una seconda punizione al compagno)
Angelico: Antonio! Smettila!
Antonio: no, signor maestro.
(Angelico si alza dalla sedia, dirigendosi verso Piero)
Angelico: siamo qui per imparare, no? Se non hai capito o non sai le cose, devi parlare con me. Io sono il tuo maestro e posso aiutarti se hai difficoltà.
Piero (sorridendo): grazie, signor maestro!
Angelico (voltandosi verso Antonio): in quanto a te, Antonio, le linguacce non si fanno ai proprio maestro, è mancanza di rispetto e tali comportamenti andrebbero puniti. Per questa volta ci riderò sopra, ma non farlo mai più.

(inizia la lezione)

Chiara Marchesini - L'ANTIMAESTRO - Dialogo platonico

PERSONAGGI:
-DISCORSO MIGLIORE (D.M.)
-DISCORSO PEGGIORE (D.P.)
-ANTIMAESTRO/FERMO MONOLITICO (A.)
-RAGAZZO (R.)

D.M. “Vecchio mio! Da quanto tempo!”
D.P . “Troppo poco, mio caro”
D.M. “Vedo che non sei cambiato di una virgola! Sei rimasto sempre lo stesso irrispettoso e maleducato!”
D.P. “Ovviamente, pensavi che il tempo mi potesse cambiare?”
D.M. “No, solo un miracolo potrebbe farti rinsavire”
D.P. “Tu invece sei cambiato, e se possibile sei ancora più vecchio bacucco di prima”
D.M.“Vorrai dire più saggio!”
D.P. “Voglio dire esattamente quello che ho detto”
D.M. “Brutto...”
R. “Scusatemi...”
D.P. “E questo chi è? Sta con te?”
D.M. “Assolutamente no, credi che un ragazzino così rammollito possa essere accompagnato da un educatore come me?”
D.P. “Hai fatto anche di peggio...”
D.M. “Razza di...”
R. “Scusatemi...”
D.M. “Ragazzino, non ti hanno insegnato le buone maniere? Non si interrompono due maestri che stanno dialogando!”
R. (torcendosi le dita)“Veramente io...”
D.P. “Sei sicuro che non sia venuto a scuola da te? Dalla complessità delle proposizioni che compone potrebbe anche essere...”
D.M. “Insisti?!”
R. (mortificato) “Veramente io...le buone maniere...non mi sono state insegnate...”
I due discorsi ammutoliscono, sbalorditi.


D.P. “Dunque...tu non sei mai andato a scuola?”
R. “In realtà ci sono andato...”
D.M. “Ah...e dopo quanto tempo l'hai abbandonata?
R. “Ho finito quest'anno, dopo 5 anni di elementari, 3 di medie e altri 5 di liceo”
D.P. “Stai cercando di ingannarci, ragazzino? Guarda che io sono l'imbroglio fatto uomo, non puoi darla  a bere a me.”
D.M. “In 13 anni di studi non sei riuscito ad apprendere nulla?”
R. “Io credevo di sì”
D.M. “credevi?”
R. “Si...fino a che non ho finito gli studi. Ora mi rendo conto di essere perso, confuso, di non sapere niente...”

D.M e D.P., bisbigliando tra loro
D.P. “Ai nostri tempi non era così...possibile che i giovani si siano afflosciati a tal punto?”
D.M. “Aspettiamo a giudicare, ricorda che ai nostri tempi noi eravamo l'esempio”
D.P. “Un gran bell'esempio per quanto mi riguarda...tu invece...”
D.M. “Ah, smettila adesso, sciocco immaturo!Rimandiamo questo eterno dibattito, e cerchiamo di capire cosa è andato storto...”
D.P. “D'accordo”
Rivolgendosi di nuovo al ragazzo

D.M. “Senti un po' piccolo...chi è stato il tuo mentore?”
R (Imbarazzato) “Il mio cosa?”
D.M. (sospirando) “Il tuo maestro, colui che hai preso come esempio da imitare...”
R. “Ah...Il signor Monolitico, Fermo Monolitico...E' Laggiù”

Indica un uomo che si aggira a testa alta, pavoneggiandosi...è sempre stato presente nella scena.

D.M. “Oh mamma...tu l'avevi notato?”
D.P. “Proprio no, quando è arrivato?”
A. “Io sono sempre stato qui, davanti ai vostri occhi!” Replica rosso in volto

Il D.M e il D.P. Si scambiano uno sguardo di sufficienza

D.M. “Certamente...ci scusi, è lei il maestro del ragazzo qui presente?”
A. “Sissignore”
D.P. “Benissimo. Potrebbe esporci, brevemente, tramite quali principi base lei educa e forma gli allievi?”
A. “Ne sarei onorato: In primis, come dico sempre agli alunni, alla base di tutto sta la fiducia.

D.M. E D. P. annuiscono soddisfatti

A. “Gli alunni devono avere piena fiducia nelle mie parole, tutto ciò che dico deve essere considerato oro colato: il professore è superiore in tutto, il rapporto con l'allievo è puramente gerarchico e verticale; gli unici errori posso essere compiuti dagli studenti.

D.M. e D.P. Smettono lentamente di annuire, e spalancano la bocca, esterrefatti.

A. prosegue, con un sorriso sicuro dipinto in volto “Durante le mie ore, qualunque intervento è negato, se non prettamente riguardante l'argomento trattato. L'apprendimento necessita concentrazione, non sono ammesse distrazioni di alcun genere.”

Il D.M. e il D.P si guardano, con una smorfia di disapprovazione in viso.

A. “Inutile aggiungere, poi, che il comportamento tenuto dagli studenti è impeccabile, non uno che osi cambiare posizione sulla sedia, tenga le gambe in altro modo se non unite davanti a sé, si azzardi a chiedere di uscire o a cercare di distinguersi per modo di fare e costumi ” conclude, con cenno soddisfatto del capo.

Il D.M. ha le mani nei capelli, Il D.P. i palmi a coprire la faccia

D.M. “Non posso credere a ciò che sento”
D.P. “Io non VOGLIO credere a ciò che sento”
D.M. “Come dice lei “in primis”, il maestro deve essere ragionevole. Egli non solo dovrebbe ascoltare, ma accettare le critiche, controbattere o usarle per formarsi a sua volta.”
D.P. “Oppure, in alternativa, dimostrare la propria furbizia rigirandole, come se fossero state previste, senza mai farsi cogliere di sorpresa!”

L'A. diventa nervoso

D.M “Inoltre, il buon maestro, se davvero è colto, non insegna mai solo ciò che spiega. I collegamenti dovrebbero aprirsi naturalmente nella sua mente!”
D.P. “Esattamente! Egli deve fare in modo che gli studenti siano in grado di tutelarsi da qualunque accusa, sfruttando più argomenti possibili per convincere le persone!”

L'A. Si allarga il colletto con il dito, sempre più agitato

D.M. “E, cosa più importante, il maestro deve essere un modello da seguire, ma come può l'allievo voler imitare qualcuno che lo mortifica fisicamente e psicologicamente?!”
D.P. “Per la miseria, concordo! I giovani seguono il piacere! Se lei non rende lo studio un piacere, come pretende che questi desiderino apprendere!

D.P. “Non posso credere a quello che sto dicendo, ma ciò di cui parla questo professore è ancora più barbaro di quello che sei solito dire tu!”
D.M. “Forse, e dico forse, i suoi insegnamenti sono peggiori dei tuoi! E questo è tutto dire!”

I due discorsi si scambiano uno sguardo d'intesa, e sbattono fuori scena l'antimaestro

D.M. “Vattene via, sciocco borioso!”
D.P. “E' meglio che tu non ti faccia rivedere tanto presto”

D.M. (rivolgendosi al giovane) “Ora, tornando a noi ragazzo...vieni, seguimi, e io ti insegnerò il discorso migliore”
Il ragazzo si avvia
D.P. “Ma che fai? Lo ascolti davvero? Non hai sentito gli scarsi argomenti con cui ha attaccato il tuo maestro? Segui me, io sarò in grado di educarti bene”
D.M. “Bene? Quale bene? Tu lo porterai alla rovina!”
D.P. “Hai già perso una volta a questo gioco, vecchio mio, sei sicuro di voler tentare di nuovo?”
D.M. “Oramai che sono in ballo mi conviene ballare!” e rivolgendosi al ragazzo “Nel frattempo, fossi in te, cercherei qualcun altro che ti insegni, qui ne avremo per un po'”
D.P. “A noi due, matusa dei miei stivali”

D.M. “Non aspettavo altro, sciocco bambinetto!”

martedì 8 ottobre 2013

Jessica Fiore - Note su alcune opere di Dante Alighieri

La Commedia

La Commedia è l'opera più importante e conosciuta di Dante Alighieri.
Quest'ultimo, nel suo poema, concepisce la terra come una sfera divisa in due emisferi: la parte superiore è quella delle terre emerse ed è abitata dagli uomini, mentre la parte inferiore è coperta di acqua ed è disabitata. Nelle profondità dell'emisfero delle terre emerse è posto l'inferno, nell'emisfero delle acque, invece, si innalza la montagna del Purgatorio, in cima alla quale si trova il Paradiso terrestre.
L'emisfero delle terre emerse ha per estremi confini il Gange a oriente, le Colonne d'Ercole, ossia -Cadice, a occidente.
Al centro di esso, inoltre, vi è la città di Gerusalemme, sotto la quale è posto l'inferno, che ha la forma di un cono rovesciato che, via via, si restringe, fino ad arrivare al luogo dove è collocato Lucifero. La voragine che costituisce l'inferno è stata formata appunto dalla caduta dell'angelo Lucifero, trasformato da Dio in un enorme mostro a tre teste. L'inferno è costituito da nove cerchi ed è diviso in tre parti, dove sono punite le diverse tipologie di peccato. Nell'anti-inferno sono puniti gli ignavi, mentre nell'inferno vero e proprio si susseguono i peccati di incontinenza, di violenza e infine di frode.
I peccati di incontinenza sono divisi da quelli più gravi delle due zone inferiori tramite una palude e le mura della città di Dite, oltrepassate le quali si trovano gli eretici.
Il viaggio quindi si sviluppa con moto discendente: infatti, il protagonista supera tutti i peccati umani, man mano sempre più gravi, per arrivare a Lucifero.
Dante, dopo esser giunto nel nono e ultimo cerchio dell'inferno, dove sono condannati i traditori e dove è posto il diavolo, può infine attraversare la Natural Burella (uno stretto naturale), che lo conduce sulla spiaggia del Purgatorio, dove le anime subiscono una pena solo temporanea.


La Vita Nova.

La Vita Nova, è un prosimetro, un testo in cui cioè si alternano poesie e prose.
Esso narra, in chiave stilnovistica, l'amore per Beatrice.
I componimenti sono stati scritti tra il 1283 e il 1292 e, quindi, corrispondono a differenti periodi della vita dell'autore e a differenti tecniche stilistiche. Le poesie più “antiche” subiscono l'influenza della scuola toscana, e quindi sono le più rozze. Le più poesie tarde, invece, sono ispirate a Guido Cavalcanti, e descrivono l'amore come un tormento; altre imitano Guido Guinizzelli e lo Stil Novo, e rappresentano Beatrice come una donna angelo.
Dante inserisce inoltre tra le poesie delle prose che spiegano le rime e le contestualizzano.
L'opera si apre con la metafora della memoria paragonata a un libro. I ricordi di Dante vengono infatti metaforicamente indicati come un vero e proprio testo, dotato di una rubrica, e in cui il titolo è in latino. Dal "libro della sua memoria" Dante dà origine a un vero libro, cercando di selezionare le parti più importanti del "manoscritto" della memoria.
L'autore non scrive quindi in maniera realistica, ma proponendo la sua interpretazione dell'esperienza vissuta.

Jessica Fiore - Il “fin'amor” o “Amor cortese”


Il concetto dell'amor cortese, viene utilizzato per la prima volta nel XII secolo nella poesia dei lirici provenzali in lingua d'oc, nella Francia del sud. Successivamente, avrà successo anche nel nord della Francia.
L'amor cortese, quindi, ha origine fin dai tempi dei trobadores, coloro che praticavano l'art de trobar, ossia narravano e tramandavano storie.
La teoria che viene assimilata dai trobadores fa riferimento al De amore di Andrea Cappellano, in cui l'autore sostiene che l'amore è un sentimento nobile, gentile e cortese e che esiste a sua volta solo nei cuori dei nobili. Tale forma d'amore si rivolge ad una dama aristocratica, considerata superiore all'uomo e che lo rende pertanto migliore. L'uomo, infatti, può nutrire "amor cortese" solo per una donna più nobile di lui.
A questo punto l'amata, per aver la certezza che il suo spasimante sia degno di lei, lo sottopone ad una serie di prove sempre più difficili, ispirando nell'uomo il plazer, ossia il piacere per quello che la donna fa. Il premio finale sarà l'amore della donna stessa, di cui il cavaliere è investito tramite un bacio.


Un esempio celebre e significativo di tale concezione è la storia di Lancillotto e Ginevra, specie nella versione di Chrétien de Troyes, in cui il cavaliere si innamora della regina Ginevra, moglie di Re Artù, ed ella lo investe suo cavaliere, dopo che Lancillotto le ha dato estrema prova del suo amore.

L'amor cortese, quindi, rende migliore l'uomo in senso morale, poiché lo spinge a perfezionarsi per poter raggiungere il cuore della donna amata, ma anche in senso sociale, poiché può essere nutrito solo dai cuori dei nobili, i quali a loro volta possono innamorarsi solo di una dama a loro socialmente e spiritualmente superiore. Inoltre, secondo Cappellano, l'amore non può non essere ricambiato e, se la donna amata è sposata, il marito non può opporsi all'amor cortese tra lei e un cavaliere, almeno se ha un cuore davvero nobile.

La tematica dell'amor cortese successivamente viene ripresa e modificata da alcune scuole italiane, come ad esempio la Scuola Siciliana, la Scuola Toscana e lo Stilnovo, di cui fa parte, per una prima fase della sua produzione letteraria, Dante Alighieri.
Attualmente possiamo sostenere che il fin'amor debba essere collegato ad un determinato contesto sociale, e precisamente al periodo feudale, come dimostrano alcuni elementi-chiave presenti nelle liriche provenzali. Infatti, tra il rapporto amoroso e il rapporto feudale vi è un parallelismo. L'uomo si innamora di una donna superiore socialmente a lui, proprio come il Re è superiore al vassallo; inoltre, la dama investe l'amato tramite un bacio, dopo una serie di prove di fedeltà, appunto come il sovrano investe il cavaliere appoggiandogli la sua spada sulla spalla e dandogli un bacio.

Ilaria Izzo - Dieci racconti di Dino Buzzati

Introduzione

Certamente Dino Buzzati può annoverarsi tra i più grandi autori italiani del Novecento.
Artista eclettico, oltre che giornalista e scrittore era anche pittore, appassionato della montagna, è noto al gran pubblico soprattutto con il suo “Deserto dei tartari”.

Tuttavia, la forma che meglio corrisponde al suo talento narrativo è il racconto, e proprio con la fortunata raccolta “Sessanta racconti” vincerà il premio Strega.
I racconti di Buzzati sono magistrali nella forma e nel contenuto, ma anche particolari e di difficile catalogazione. Sono racconti surreali, talvolta fantastici se non fantascientifici, allegorici, e talora anche macabri o misteriosi.
Infatti per Buzzati, accanto a tutto ciò che i nostri sensi sperimentano e utilizzano per costituire la realtà, esiste una dimensione misteriosa e potente che ci sfugge.
Il sapore triste, disperato ed a volte vagamente macabro delle sue opere, è forte in qualsiasi luogo esso le ambienti, e ci invita a guardare ciò che ci circonda, con occhi più rispettosi e consapevoli del mistero della vita. Con un senso di attesa di  qualcosa, che non arriverà mai.
Buzzati scrive bene, con grande limpidezza espressiva e linguistica contrapposta al mondo allegorico, surreale spesso rappresentato; in lui domina sovente un senso del fantastico, nei libri di Buzzati c' è il mistero e la magia che ritrovi nei silenzi dentro i boschi di montagna da lui amatissimi. Ha un suo particolare stile, asciutto e incantatore. In un certo senso, Buzzati trasfigura la realtà per farla vedere meglio, per far scoprire a tutti che sotto sotto c'è una bellezza pura e incontaminata. E i racconti terminano come fossero incompiuti, lasciando il lettore aperto ad altri significati che può attribuire al testo appena letto.


Sette piani


“Sette piani” è uno dei racconti più conosciuti ed anche più emblematici di Buzzati.
Esso, in un certo senso, è una metafora della vita, descrive in maniera indiretta come l’uomo in effetti si trova in balia dell’esistenza, nulla può contro gli eventi che si susseguono nel tempo, è impotente, non è mai padrone del suo destino che dipende da altri ed altro da lui non controllabile, per quanti sforzi faccia, e questo gli crea ansia, angoscia, mal di vivere.
Un giorno Giuseppe Corte si fa ricoverare in un moderno sanatorio, il migliore del suo genere, specializzato esclusivamente nella cura di quell’unica malattia da cui è affetto, per cui medici e sanitari sono assolutamente i migliori a disposizione. La casa di cura è strutturata in sette piani: i pazienti meno gravi vengono ricoverati in quello più alto, mentre ai piani più bassi si trovano, in forma crescente da piano a piano, i casi più gravi. Corte viene accolto subito al settimo piano, in attesa che i medici riescano a debellare la lieve forma che lo affligge e lo rispediscano a casa al più presto, come egli spera. Ma dopo poco che soggiorna al settimo piano, pieno di buonumore e voglia di guarire, commiserando gli inquilini dei piani sottostanti il suo, una serie di sfortunati e sconcertanti eventi, indipendenti dalla sua volontà, fa sì che venga gradualmente trasferito nei piani inferiori, sempre con motivi pretestuosi, e quindi senza che ve ne sia la reale necessità medica.
Prima il ricovero di una donna che vorrebbe, al settimo piano, occupare più camere (per lei e i  figli), e quindi la necessità di posti letto supplementari che gli vengono richiesti appellandosi alla sua cortesia, poi gli scrupoli di un medico allarmista, successivamente un semplice sfogo che gli appare su una gamba e lo fa scendere addirittura di due piani, poi un errore amministrativo, infine le ferie dei dipendenti: Giuseppe Corte discende così uno dopo l'altro i vari piani della clinica, nonostante le continue proteste nei confronti del personale dell'ospedale e nonostante i medici continuino a ripetergli che non ha nulla di grave. Con una graduale escalation di angoscia e depressione, Giuseppe Corte scende simbolicamente i vari gradini della degradazione umana, diviene una marionetta, un povero malato privo di forza, in balia del volere altrui a cui non sa o non è capace di opporsi, e giunge al temutissimo piano terra, il regno assoluto della desolazione e della tristezza. Corte, impotente nei confronti delle decisioni prese all'interno dell'ospedale, in un ultimo anelito, tenta ancora di persuadere se stesso e i sanitari circa la sua sanità.
Ma inesorabilmente cade in balia del buio della depressione, che non permette risalite di sorta.


Eppure battono alla porta


Un racconto surreale, melodrammatico, che ricorda molto da vicino le atmosfere di attesa inquietanti alla Edgar Allan Poe,  come nella “La maschera della morte rossa” o “Il crollo della casa degli Usher”, e che riporta il drammatico contrasto tra la boria, l’arroganza e la superbia delle classi nobili, le cosiddette persone per bene, e la potenza della natura.
In un palazzo aristocratico una nobile famiglia si ritrova insieme ad alcuni invitati, mentre all’esterno imperversa un tremendo temporale. Nessuno, tranne pochi dei presenti, si accorge o sembra curarsi del fatto, dell’imminente, disastrosa alluvione alle porte.
In una notte di pioggia, Maria Gron è nella sua casa, insieme alla sua famiglia e al dottor Martora, medico e vecchio amico di famiglia.
La figlia Giorgina le racconta di aver visto due contadini portar via due cani di pietra che erano sempre stati nel parco della famiglia. Mentre i presenti discutono di ciò, arriva il giovane Massigher, che la signora Gron non ha in simpatia, il quale cerca di avvisare la famiglia di un pericolo legato all’ingrossamento del fiume, dovuto alla pioggia torrenziale, ma la signora Gron non vuol sentir parlare del fiume e continua a cambiar discorso.
Mentre la famiglia e gli ospiti giocano a carte, si sentono dei rumori che sembrano provenire dalle fondamenta della casa, ma Maria Gron li attribuisce al temporale. I contadini vengono trafelati ad avvisare della violenza inaudita della natura. Il fattore Antonio si presenta alla porta, preoccupato dall’avvicinarsi dell’acqua, ma la famiglia ignora il suo avvertimento.
Infine l’acqua giunge fino alla casa ed entra da una finestra aperta, ma Maria rifiuta di lasciare la casa con tutti i suoi averi e tutti restano in attesa di quello che accadrà molto ansiosi. All’improvviso qualcuno bussa alla porta…
L’ottusità di chi non concepisce, come la signora Goru, che possa accadere qualcosa contro la sua volontà, fa sì che la casa sia inghiottita dal fiume, insieme con tutti gli occupanti, senza che nessuno muova un dito.
L’ ottusità dell’uomo, la sua tracotanza, il senso di onnipotenza, sono tutti orpelli inutili dinanzi alla semplice, disarmante azione delle acque, che svolge quasi un ruolo di necessaria, profonda, radicale pulizia.



Il mantello


“Il mantello” è una breve, ma ferma, insolita, determinata e commovente denuncia della guerra, dei lutti e degli orrori di tutti gli eventi bellici.
Dopo tanto tempo il soldato Giovanni torna a casa, di rientro dalla guerra. Egli è accolto con gioia immensa dalla propria madre. Tuttavia la donna si accorge che il figlio non è più il ragazzo pieno di forza e di vita, come lo ricordava, allegro e gioioso com’era quando è partito. Naturalmente in cuor suo la donna lo giustifica, crede che sia una conseguenza della triste esperienza che ha dovuto affrontare, che lo ha trasformato di colpo da ragazzo ad uomo. Tuttavia ben presto si accorge che c’è altro, che c’è di più: Giovanni è strano, pallido, frettoloso, nervoso, passa da un ambiente all’altro quasi con furia, quasi volesse permearsi dell’aria di casa, delle immagini familiari, assorbire suoni, odori, immagini delle sue cose familiari, dal suo letto agli oggetti della sua infanzia.
E inizia a salutare la mamma, ad accomiatarsi da tutti, mostrando una gran fretta di ripartire immediatamente. Soprattutto Giovanni appare assai turbato, quasi assillato, ossessionato dalla presenza di un “amico” che lo ha accompagnato fino alla casa natia, ma che malgrado le insistenze della madre, non fa accomodare in casa, l’amico di Giovanni lo aspetta fuori dal cancello, lo aspetta a breve, lo aspetta con impazienza. La madre non capisce perché deve ripartire immediatamente, chiede inutilmente spiegazioni, crede che il figliolo desidera scappare a rivedere quanto prima la sua fidanzata, ma ben presto capisce che lei stessa si sta illudendo. Il suo cuore di madre capisce, va oltre l’umana sapienza e gradualmente, ma inesorabilmente comprende chi è il misterioso amico da cui Giovanni deve assolutamente ritornare al più presto, comprende perché il suo bel figliolo ha un’ aria diversa, dismessa,  eterea come un fantasma…ma proprio perché madre si rifiuta di credervi. La scuote, riportandola alla cruda realtà dell’esistenza l’azione di un innocente, il piccolo fratellino Pietro, che scosta il lembo del mantello che Giovanni non si era mai tolto durante l’ultimo commiato, rivelando un’atroce, mortale ferita. E fuori lo aspetta inesorabilmente l’amico, l’amico che con pazienza, tenacia e misericordia, ha permesso a Giovanni di essere rivisto l’ultima volta dai suoi cari, anche se colpito mortalmente durante la guerra, un amico descritto nelle ultime righe: “signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato”.


Una cosa che comincia per elle


Uno delle più grandi paure dell’uomo degli ultimi anni è stata l’AIDS; oggi è sempre una grave patologia, ma grazie ai progressi della scienza e della medicina, comincia a far meno paura, certamente provoca molto meno panico rispetto a quanto esordì sulla scena mondiale, e non si comprendeva bene la causa, i meccanismi di insorgenza e diffusione e soprattutto come affrontarla farmacologicamente. Diciamo che l’AIDS, così come il cancro, rappresenta la paura con la maiuscola che in passato era deputato ad altre infezioni oggi fortunatamente quasi debellate del tutto come la peste o il vaiolo.
Ebbene, in questo racconto, rendendo mirabilmente lo stato d’animo  gradualmente ingravescente di mistero, sorpresa, ansia ed angoscia che avviluppano il protagonista come i tentacoli di una piovra, Buzzati ci parla proprio di questa paura, la paura delle malattie, una paura tanto grande e tanto temuta, insita ed ancestrale nell’uomo, una paura che rende i suoi simili disumani nei confronti del povero, sfortunato reietto colpito dalla patologia.
Cristoforo Schroeder, un mercante di legnami, contrae la lebbra a sua insaputa, mentre un lebbroso lo aiuta a spingere una carrozza, rimasta impantanata in una notte temporalesca.
Ai primi sintomi, credendo sia un banale malessere, egli avvisa il medico, sperando di trovare un aiuto, ma quest'ultimo a sua volta avverte invece le autorità, nella fattispecie il sindaco.
Medico e sindaco la mattina seguente si recano nella locanda dove Schroeder soggiorna ed il sindaco, mostrando una cattiveria assurda ed una fredda insensibilità, comunica all'ignaro Schroeder di aver contratto la malattia, che il suo cavallo e la sua carrozza sono stati bruciati ed inoltre gli ordina, sotto la minaccia di una pistola, che deve lasciare immediatamente la città ("Fuori! fuori di qua! Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane! "), portando al collo una campanella che segnali alle altre persone il suo arrivo, senza neanche poter indossare i suoi vestiti, in quanto verranno anch'essi bruciati.
Un racconto breve e drammatico, dove la crudeltà della patologia, la temutissima lebbra, per secoli un autentico spauracchio, eguaglia la crudeltà dell’uomo; la misericordia, l’umanità, lo spirito di solidarietà sembrano dimorare solo nel cuore del povero lebbroso che si prodiga a tirare fuori la ruota di una carrozza dal fango.


La fine del mondo


E se un bel giorno un preciso segnale fa capire che Dio ne ha abbastanza di noi, e con un semplice pugno intende dar luogo a breve alla fine del mondo?
Come reagirebbe l’umanità? E chi si salverebbe? E finalmente, gli uomini darebbero prova di sé, offrirebbero il meglio di sé, se non altro per salvarsi l’anima? O la cattiveria, la crudeltà, l’egoismo dell’uomo trionferebbero anche stavolta, come al solito?
Anche questo racconto rispecchia il mondo di Buzzati, un mondo magico, misterioso, stupendo come una maestosa montagna, ma che spesso la presenza dell’uomo in qualche modo deprezza.
E’ sempre l’individualità ad emergere anche quando è la fine di tutto, quando Dio, rappresentato dallo scrittore come un enorme pugno che si scaglia sul mondo, piomba sulla Terra per giudicare gli uomini. In “La fine del mondo”, di fronte alla catastrofe imminente, gli uomini cercano la salvezza: c’è chi prega, chi piange, chi fa l’amore, e chi disperatamente si lancia alla ricerca di un prete per confessarsi e salvarsi l’anima. Preti e membri del clero sembrano essersi volatilizzati; ma infine una gran folla che corre disperata per la città scova e trattiene un giovane sacerdote, pretendendo da lui confessione, comunione, conforto ma più di tutto assoluzione completa, salvezza assoluta e garantita.
Il prete in quest’occasione dimostra tutta la sua umanità, nel senso che si dimostra per quello che davvero è: senza esitare, tradisce se stesso e le proprie scelte di vita. Dimentica il dettato evangelico, pensa soltanto a se stesso. Trema pensando alla propria fine e non più a quella folla che egli, in forza della propria missione, dovrebbe sostenere negli ultimi istanti di vita del mondo. Anche lui come gli altri cerca la salvezza nella confessione dei propri peccati.
L’uomo chiede «E io? E io?». Tutti quei «maledetti» che gli rubano la possibilità di isolarsi, di pregare, di confessarsi e di autoassolversi, in definitiva gli impediscono di salvarsi.
Essi non sono più le pecorelle del suo gregge, non rappresentano più niente per lui; egli non ama più l’umanità e l’umanità non lo ama semmai se ne serve.
«Nessuno … gli badava»..., scrive Buzzati, a nessuno interessa niente dell’altro.
E non capiscono che è proprio questo egoismo, questa grettezza, questa meschinità, questo modo di essere è quello che Dio misericordioso non perdonerà mai.



Qualcosa era successo


Il racconto è essenzialmente la storia, assai insolita, di un viaggio, un lungo viaggio in treno, senza soste e senza interruzioni,  dal profondo Sud fino a Milano; fin qui nulla di particolare, il paesaggio scorre pigramente dal finestrino davanti agli occhi del protagonista narratore.
Ad un passaggio al livello, la vista di due persone in allarmata discussione, innesca la paranoia del protagonista e da lui agli altri passeggeri il passo è breve, quasi come un’infezione virale, per cui in un crescendo di tensione e di nevrastenia, il viaggio tranquillo e soporifero diventa un angosciante viaggio verso l’ignoto, verso una probabile catastrofe accaduta proprio nei luoghi dove il treno si sta dirigendo. L’episodio avvenuto al passaggio a livello, semplicemente una donna, che aspetta il passaggio del convoglio per attraversare, in discussione con un uomo che, a giudizio del protagonista, è allarmato e spaurito, è un episodio reale; ma l’interpretazione che ne viene data è filtrata dalle paure, dalle nevrosi di uno che facilmente si impossessa degli altri.
La stupidità umana non ha limiti ed è facilmente contagiosa, questo pare essere il significato del testo. Infatti, da quel momento, ogni persona che si vede dal finestrino, in qualsiasi zona si trovi il treno, dà a tutti l'impressione di essere in preda al panico per un ignoto motivo; addirittura i treni che da nord vanno a sud appaiono stracolmi di profughi. Si vede ciò che si vuole vedere e che dà corpo e conferma alle proprie paure. Il terrore di non sapere cosa aspetta all'arrivo assale l’animo del protagonista dilaniandolo, ed egli trasmette la sua angoscia irreale agli altri occupanti del vagone, evidentemente tutti recettivi a tale ansia.
Un pezzo di giornale strappato ad uno strillone amplifica le sue e loro paure: c'è scritto IONE, che lui interpreta come rivoluzione, inondazione, esplosione... ma potrebbe anche essere premiazione, esposizione, celebrazione. In realtà, egli non è una persona equilibrata, proprio perché non è immune da pecche, vede ed immagina sempre il peggio, possiamo dire che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto; per cui infine all'arrivo nella Stazione Centrale di Milano il protagonista scende dal treno terrorizzato e si inquieta nel trovare la stazione deserta (è notte fonda) e il fischio di un treno viene interpretato come un grido che squarcia la notte.
La storia è descritta dal punto di vista del protagonista: ansia e insicurezza portano lo stesso protagonista ad un crescendo di paure infondate. Proprio perché è il protagonista a descrivere soggettivamente gli eventi, le sue paure potrebbero inizialmente apparire come fondate agli occhi del lettore. Questo tipo di narrazione, con il viaggio nella mente di un personaggio ansioso e suggestionabile, è un tema ricorrente nelle storie di Buzzati.



Appuntamento con Einstein


Buzzati dimostra apertamente  in vari suoi scritti la sua avversione per la guerra e simili, egli considera la guerra e le attività collaterali come le fabbriche di armi come un vero e proprio abominio morale dell’uomo. E naturalmente l’orrore più grande verso cui scaglia il suo sdegno è la bomba atomica.
In questo racconto intitolato appunto “Appuntamento con Einstein”, Buzzati immagina che il celebre scienziato, dopo lunghi studi ed intense lunghe riflessioni, riesce a concepire con chiarezza il suo famoso principio della relatività, elucubrando non solo le sue implicazioni sullo spazio e sul tempo, ma già intuendo gli usi possibili ottenibili dando luogo all’immensa liberazione di energia scindendo la materia.
Un giorno, uno strano personaggio si avvicina ad Einstein: egli è l'Angelo della Morte, e senza mezzi termini gli preannuncia che è giunta la sua ultima ora.
Lo scienziato all'inizio è incredulo, ma poi, convinto dagli straordinari poteri dell'interlocutore, chiede una proroga, perché intende completare la formulazione della sua teoria, prima di lasciare la vita.
Il demone gli concede così ancora un mese di tempo e poi, scaduto il tempo concordato, un'altra dilazione di quattro settimane.
Alla fine, trascorso quest'ultimo lasso di tempo, Einstein, presentatosi all'appuntamento, dopo che ha terminato i suoi studi sulla relatività, è rimandato indietro. Egli è stato bellamente preso in giro, ingannato. Infatti l'Angelo della Morte, non è mai stato interessato alla vita dello studioso, ma lo ha incalzato affinché Einstein portasse a compimento con rapidità le sue ricerche di fisica, utili  per scopi belligeranti, e quindi responsabili dei lutti, dei dolori, degli orrori…tutte belle cose di cui si nutre il Male, l'Inferno, che sta dietro all’Angelo della Morte inviatogli per ingannarlo.


All’idrogeno


Sulla falsariga di “Appuntamento con Einstein” anche questa racconto ha sullo sfondo, come vero protagonista, la bomba atomica. Con tutto quanto esso sottendente: strumento di morte creato dall’uomo, certamente, ma anche come simbolo della stupidità e della grettezza umana.
Il menefreghismo, l’egoismo, l’aridità d’animo, il desiderio di trovare una soluzione che escluda sé stessi da ogni coinvolgimento è al centro del racconto “All’idrogeno” nel quale lo spaccato di umanità  preso in considerazione da Buzzati è un condominio. Ciascuno dei condomini, campioni dell’umanità, bada esclusivamente al proprio orticello, cerca in qualunque modo di non affrontare questioni che turbino il proprio quieto vivere.
All’inizio di questo racconto il protagonista riceve una telefonata nel cuore della notte e egli, improvvisamente, si rende conto, così come gli altri residenti del palazzo dove abita, che qualcosa di insolito sta per accadere. Infatti l’orrore, l’oggetto perturbante del perbenismo ipocrita dei benpensanti fa il suo ingresso nel condominio sottoforma di una bomba all’idrogeno che viene portata nell’atrio del palazzo.
Gli inquilini del palazzo escono dalle loro case e sono terrorizzati e si agitano perché tra miliardi
d’individui nel mondo quella sera la bomba atomica è stata portata a casa loro, provare a chiedere
di che cosa si tratti è quasi un affronto e tutti parlano sussurrando.
“Gli abitanti del palazzo sembrano impazziti, tormentati oltre misura dall’idea che loro avevano
altri piani, che la bomba li travolgerà e loro non potranno fare ciò che avevano programmato; sono
stizziti al pensiero che la bomba sia toccata proprio al loro condominio e non ad altri” così magistralmente li descrive Buzzati
La scena, però, viene improvvisamente rasserenata da una notizia, tra i condomini si diffonde la
voce che la bomba pare indirizzata a uno solo degli abitanti del condominio, proprio il protagonista diretto del racconto. Tutti sono improvvisamente travolti da una selvaggia felicità e sembrano non rendersi conto che nel caso in cui la bomba dovesse esplodere comunque la cosa li coinvolgerebbe.
Il destinatario del pacco infernale si ritrae verso l’uscio della sua porta e torna a chiudersi nel suo
appartamento, ciò che lo aveva accomunato agli altri condomini, improvvisamente diventa un suo
problema personale. Lo sgomento che aveva sconvolto tutti ritorna ad essere il problema esclusivo di uno solo e perciò di nessun interesse per gli altri,  gli altri possono ritornare a vivere tranquilli, perché, almeno per quella sera, il mondo intero può anche esplodere, non è una cosa che li riguarda.


Non aspettavano altro


Nei suoi racconti Buzzati si sofferma spesso a sottolineare la grettezza, l’orizzonte limitato degli esseri umani, la loro meschinità. E naturalmente, non può non esaminare una delle rappresentazioni più drammatiche dell’aridità umana, la violenza. La violenza gratuita, pretestuosa, selvaggia è la vera protagonista di questo racconto.
A causa di un imprevisto, Anna e Antonio cercano un posto per la notte nel piccolo paese lì vicino. Gli abitanti sembrano guardare con sospetto la coppia che non riesce a trovare disponibilità negli alberghi del paese. La stanchezza inizia a farsi sentire e i due si avviano verso l’albergo diurno dove almeno rinfrescarsi un poco. Trovano però code interminabili di gente e anche quando arriva il loro turno, scoppia un diverbio tra Anna e un’altra donna.
Dopo ripetuti tentativi da parte di Antonio di recuperare la situazione i due devono abbandonare l’idea di poter usare quei bagni e scorgono in una piazzetta poco distante una fontana piena di bambini e donne e uomini tutto intorno.
Anna non resiste più ed entra nella fontana per rinfrescarsi ma un mormorio inizia a sollevarsi dalla folla tutt’intorno affinchè torni indietro, perchè quella fontana è riservata ai bambini.
La situazione degenera nel giro di breve tempo e niente può ormai trattenere quella gente dal buttare fuori “quel carico di cattiveria” covato a lungo in fondo ai loro animi.
Anna viene presa e picchiata e anche Antonio ha la peggio.
Sembra che tutti siano impazziti e non esista alcuna forma di pietà, comprensione o di semplice raziocinio. La gente grida incespicando nelle parole, ora diverse da prima, incomprensibili, gutturali, selvagge, con un suono rozzo e informe. L’isteria collettiva si è scatenata, in un delirio sfrenato e pazzesco Anna che tenta la fuga viene inseguita e lasciata cadere nella gabbia del castello. Anche Antonio giunto in soccorso di Anna viene scaraventato nella gabbia e la caduta gli sarà fatale. La folla ormai sazia inizia ad allontanarsi mentre Anna sente il richiamo di un grillo e tende la sua piccola mano tremante ed è come se il grillo con il suo suono si facesse portavoce del suo grido di aiuto. La natura ha pietà della follia dell’uomo.



Il disco si posò


Buzzati ha trattato spesso il tema della religione nei suoi libri; e spesso, pur non travalicando mai i limiti, senza mai mostrarsi irriverente o irrispettoso, egli utilizza la religione come un mezzo per sottolineare la pochezza dell’uomo.
Questo racconto ha qualcosa di fantascientifico, si parla di marziani e di dischi volanti.
Ma e solo apparenza; infatti, ne “Il disco si posò”,  la religione viene sviscerata nelle componenti più ambigue.
Un disco volante atterra sul tetto della canonica, e dopo l’iniziale sconcerto per lo strano aspetto degli alieni e l’istintiva diffidenza per il “diverso”, si instaura un dialogo  e si  interroga il sacerdote del luogo, sugli usi e costumi degli abitanti del pianeta Terra, e soprattutto sul significato di quella strana “antenna”, la croce, che gli alieni hanno individuato un po’ dappertutto, ma senza comprenderne il significato, malgrado la loro scienza.
Il parroco allora con ispirazione e susseguo, quasi volesse evangelizzare quegli astronauti da un’altra galassia,  spiega loro il significato della croce, di come Dio creatore onnipotente di tutto è sceso dal cielo per salvare gli uomini, che alla fine…lo hanno ucciso.
I marziani ascoltano attentamente ed in silenzio, per poi andarsene via per sempre visibilmente delusi, senza sprecare commenti su creature che si comportano in un modo così assurdo, arrivando ad uccidere il loro creatore. Non riportano quindi una buona opinione sulla razza umana.